PRATYAHARA

“Ritiro”, atto di ritrarre, ma anche riassorbimento.
L’ultimo dei cinque anga inferiori dello Yoga di Patañjali, quello che fa da ponte verso le tre fasi superiori del samyamadhāranā (concentrazione), dhyāna (meditazione) e samādhi (perfetto raccoglimento e “estasi”).
Consiste nella facoltà di liberare l’attività sensoriale dall’influenza degli oggetti esterni.
Il commento di Bhoja a Patañjali permette di intenderlo come la capacità da parte del citta (mente, intelletto) si possedere la sensazione come se il contatto l’oggetto fosse reale.
Ossia: nel corso di tale pratica i sensi, anzichè proiettarsi verso l’oggetto, rimangono assorti in se stessi. Non per questo però il citta perde la sua facoltà di avere rappresentazioni sensoriali.
Quando il citta quindi desidera conoscere un oggetto, non farà più affidamento sui sensi, ma si servirà delle potenze di cui dispone.
Secondo il commento di Vyāsa, questo tipo di conoscenza, diretta in quanto non più mediata dai sensi, consente allo yogin di conoscere “tutte le cose quali essere sono”.
Il citta in definitiva, grazie al pratyāhāra, alla sottrazione dell’attività sensoriale al dominio oggetti esterni, rispecchia esattamente e direttamente la realtà, senza più servirsi del filtro sensoriale.
Si noti che la raggiunta autonomia del citta non rappresenta l’annullamento del mondo fenomenico: pur essendo distaccati dal mondo, ossia dallo spettacolo della prakrti (la Natura o sostanza primordiale), lo yogin continua a contemplarlo.
La differenza consiste in questo: invece di conoscere servendosi delle categorie linguistiche o concettuali, egli ora osserva le cose quali esse sono.